Prevenzione e Contrasto MGF

Secondo i dati Istat (2015), le donne residenti in Italia provenienti da paesi ad alto rischio di Mutilazioni Genitali Femminili (MGF) sono 161.457 e rappresentano il 6,1% sul totale delle donne straniere, numero che però non comprende le migranti che hanno cittadinanza italiana e di seconda generazione, ed è difficile in generale prevedere cifre e profili demografici delle donne e delle minori che appartengono al gruppo di migranti irregolari e richiedenti asilo. Secondo l’UNHCR, la maggior parte di queste ultime arriva da Eritrea, Somalia e altri paesi dove la pratica è diffusa (Gambia, Sudan, Guinea, Senegal, Mali, Nigeria), con un allarmante aumento delle minori non accompagnate provenienti dalla Nigeria.

Da molti anni ormai i Centri Antiviolenza (CAV) stanno costruendo pratiche ad hoc con strumenti e strutture per sostenere le donne e le giovani migranti, anche di seconda generazione, nel percorso di uscita dalla violenza e dalle pratiche lesive tradizionali generate dalla discriminazione di genere, accogliendo un’alta percentuale (sul totale di donne accolte) di donne migranti, rifugiate, richiedenti asilo o irregolari, arrivate in Italia con la tratta o alle quali sono stati sottratti i documenti nel momento in cui hanno deciso di ribellarsi alla violenza perpetrata dal marito o dalla famiglia di origine, che le obbliga a matrimoni forzati.

È quindi assolutamente necessario e urgente migliorare la capacità di risposta e presa in carico specifica per le donne e le ragazze/bambine che hanno subìto o rischiano di subire o ri-subire le MGF (per esempio dopo il parto). Come attestano molti ospedali italiani, inoltre, è allarmante il numero delle donne migranti che ha complicazioni ginecologiche o in vista del parto, e si stima che in Italia ogni anno 8 mila bambine siano a rischio (La Stampa 06/02/2015).

Lavorare per prevenire e/o offrire percorsi di aiuto a chi ha subìto MGF è molto complesso, da un lato a causa delle pesanti conseguenze fisiche e psicologiche delle MGF, e dall’altro a causa dell’ostracismo e della discriminazione che subiscono le donne/ragazze che si ribellano a tali pratiche, nonché delle barriere culturali relative alla richiesta d’aiuto su pratiche connesse alla sfera della sessualità, dell’identità culturale, delle relazioni socio-familiari.

È quindi necessario da un lato costruire una relazione di fiducia e intercambio vero tra le operatrici dei CAV – che sono ancora prevalentemente italiane – e le donne/ragazze che hanno subìto o rischiano di subire MGF, dall’altro è obbligatorio rafforzare il network inter-istituzionale di intervento sulla problematica. In questo senso risulta chiave strategica investire sulla formazione (capacity building) del personale dei Centri antiviolenza e sulla collaborazione con le reti inter-istituzionali, comprendendo senz’altro tra queste le donne della diaspora.